La Ceramica a Montelupo

Come si fa

LA LAVORAZIONE

Per far assumere all’argilla la forma desiderata l’uomo ha usato diversi tecniche.
La fognatura a colombino. Consiste nel preparare bastoncini o strisce di argilla che vengono esse a fresco, una sopra l’altra, sino a formare un recipiente. Le strisce sono poi ben amalgamate tra loro con le dita e l’esterno accuratamente lisciato.
La fognatura a matrice. Consiste nel preparare un modello (matrice) di forma inversa e contraria al tipo di oggetto da ottenere. L’argilla allo stato molto fresco viene compressa sulla matrice in modo da farle occupare tutti gli spazi vuoti. Le due parti possono poi essere facilmente separate dopo l’essiccazione grazie alla sensibile diminuzione di volume dell’argilla, dovuta alla perdita per evaporazione dell’acqua in essa contenuta.
La fognatura a tornio. Già sul finire del IV millennio a.C. l’uomo ha inventato il tornio che permette di risparmiare molto tempo nella fabbricazione di vasi di argilla. Il tornio, oltre che una notevole precisione, consente di produrre in serie oggetti della medesima dimensione su base circolare.

IL TORNIO ANTICO

Prima della scoperta dell’energia elettrica, per muovere i torni nelle fornaci antiche si utilizzava la forza dell’uomo.
Già nel Medioevo il tornio del vasaio assunse l’aspetto che poi ha mantenuto sino a pochi anni fa; questo tornio è ancora largamente impiegato nei paesi dove meno diffusa è la tecnologia moderna.
Il tornio antico è una macchina molto semplice, che consiste in due ruote di differenti dimensioni, una delle quali molto più grande e pesante dell’altra, collegate per mezzo di un albero.
La ruota più grande è posta in basso, in maniera tale che, spingendola con il piede, si provoca una rotazione identica in quella piccola.
L’inerzia della ruota inferiore, dovuta al suo maggior peso, consente al vasaio di non spingere continuamente la macchina e soprattutto di lavorare l’argilla senza che la rotazione si freni in maniera brusca.
Questo semplice meccanismo era inserito in un banco dove l’addetto, chiamato torniante, poteva stare seduto.

I RIVESTIMENTI

I rivestimenti impiegati nella ceramica europea d’epoca medievale e postmedievale (rinascimentale, moderna) erano sostanzialmente di tre tipi:
1) Ceramiche a rivestimento trasparente o semitrasparente, detta anche ceramica invetriata, ottenuta con ossido di piombo semplice o con aggiunta di coloranti.
4) Ceramiche con rivestimento opaco a base di terra, detta ceramica ingobbiata, protetta da uno strato di vetrina lucida.
5) Ceramiche con rivestimento, detta maiolica, a base di silice, ossido di stagno e piombo, con fondo bianco-lucido.

Una volta che i lavori in argilla o in vasellame sono stati foggiati, debbono essere cotti dopo averli fatti gradualmente essiccare.
La cottura dell’argilla, se non di qualità tale da consentire il raggiungimento di temperature assai elevate, restituisce un prodotto poroso (il biscotto), il quale assorbe i liquidi, ma può essere reso impermeabile applicando uno di questi tipi di rivestimento.
Le sostanze che permettono di ottenere il rivestimento (vetrina, smalto) vengono fatte assorbire dalla ceramica solitamente per immersione.
Mentre nel caso degli ingabbi si tratta di impiegare argille particolarmente depurate che si trovano in natura, per ottenere un qualsiasi rivestimento a base di silice ed ossido metallico è indispensabile fabbricare un composto chiamato marzacotto.

LA PREPARAZIONE DEI COLORI

Per colorare le ceramiche già dotate di rivestimento metallico, venivano usati colori formati anch’essi da ossidi metallici.
Nella sostanza il procedimento è a tutt’oggi il medesimo.
I colori si possono suddividere in due categorie: i semplici formati cioè dall’ossido di un solo metalli e i composti, ottenuti attraverso la mescolanza di diversi metalli e altre sostanze.
Non sempre il pittore ceramista può vedere il colore definitivo che assumerà la sostanza che usa prima della seconda cottura.
I colori, infatti, assumono la loro brillantezza solo dopo essersi di nuovo fusi in fornace.

IL FORNELLO A RIVERBERO

Per eseguire tutte le operazioni di preparazione dei rivestimenti siliceo-metallici (smalti e vetrine) e dei colori, si calcinavano i metalli (ossidazione artificiale) utilizzando un forno particolare, chiamato fornello o fornacetta.
Si trattava di un forno a due camere, separate da un muretto di divisione che non raggiunge la volta.
Nel lato più piccolo del fornello, tramite una bocchetta, veniva acceso il fuoco.
Per sfogare dal cammino, le fiamme dovevano invadere l’altra camera del forno senza però inquinarlo con i residui della combustione.
Per questa particolarità esso veniva chiamato anche fornello a riverbero (cioè a fiamma indiretta).
Durante la fase di fusione dei metalli nel fornello, un addetto, manovrando un pesante attrezzo a forma di zappa (zappone), fissato con una catena nel punti del suo baricentro, agitava la superficie del metallo fuso, facilitando le combinazioni (accordo) tra metalli diversi e le loro ossidazioni.
Nel fornello a riverbero venivano fabbricati tutti gli ossidi metallici necessari alla lavorazione della ceramica, ed aggiunto ad essi il marzocco; tali composti erano poi finemente macinati per mezzo di macine idrauliche, mosse da animali o manuali (macinelli).

INVETRIATURA-SMALTATURA-DECORAZIONE

Per fissare una pellicola di rivestimento a base di ossido metallico su un pezzo di ceramica cotto una prima volta, il biscotto veniva, in passato come oggi, immerso in un mastello dov’era contenuta la vetrina o smalto, sotto forma di un composto macinato finemente ed allungato con acqua.
L’immersione (tuffaggio) è effettuata da addetti chiamati tuffatori, i quali debbono aver cura du non toccare con le mani il pezzo da immergere, in quanto l’untuosità naturale della pelle impedirebbe alle sostanze metalliche di ben aderire al biscotto.
Il biscotto, a causa della sua porosità, assorbe rapidamente la parte più liquida del composto, lasciando in superficie le parti metalliche.
Nel caso delle maioliche, una volta asciutta, la ceramica tuffata nello smalto può essere decorata, dipingendola o graffiando superficialmente le parti colorate.

COTTURA E DECORAZIONE

Le tecniche delle fasi finali di lavorazione della ceramica

LA FORNACE

Il forno ceramico più semplice consisteva di una parte inferiore (detta anche cinerario), destinata ad ospitare il combustibile, e di una camera di cottura superiore che il fuoco, scaturito dal cinerario, doveva attraversare filtrando da numerosi fori aperti nel pavimento.
Il forno più evoluto presenta l’aggiunta di un terzo ambiente, detto anche fornaciotto, collocato al di sopra della camera di cottura principale.
Essendo in prossimità del camino di sfogo delle fiamme, qui si addensavano i residui della combustione (fumo e fuliggine): questa, pertanto, era la camera di cottura destinata al biscotto, che non poteva essere danneggiato da tali residui essendo privo di rivestimenti in fusione.
Un altro tipo di fornace era quella detta a muffola, nella quale le fiamme passavano attraverso un’intercapedine esterna, senza lambire gli oggetti da cuocere.
Il forno a muffola poteva anche diventare fornace ad atmosfera riducente, quando all’interno della camera di cottura veniva tolto l’ossigeno.
Questa operazione era di solito effettuata introducendo sostanze che, riscaldandosi, producevano abbondante fumigazione.
Cotti una terza volta (terzo fuoco) a modesta temperatura (circa 650°C), i colori impiegati nella decorazione diventano iridescenti ed assumono riflessi metallici.

L’IMPILAMENTO

La fase di cottura dei manufatti costituiva un’operazione particolarmente delicata, alla quale si dedicavano persone particolarmente esperte chiamate fornaciai. Per sfruttare al massimo il combustibile si cercava di riempire la fornace con il maggior numero possibile di oggetti, disponendoli uno sopra l’altro in pile ordinate (impilamento).
I manufatti con rivestimento siliceo-metallico (smaltati o invetrati) venivano distanziati con appositi supporti, che molto spesso assumevano, come ancor oggi, la forma del treppiede, allo scopo di evitare che la fusione del rivestimento li saldasse tra loro in cottura.
Nei forni tradizionali (non nei tipi a muffola) per impedire che le fiamme e gli altri residui della combustione (dumo, fuliggine, polvere) danneggiassero gli smalti o le vetrine, si disponevano i manufatti da cuocere entro appositi contenitori, detti caselle o cassette, all’interno dei quali venivano distanziati tramite piccoli supporti triangolari inseriti nelle pareti e sporgenti verso l’interno delle cassette stesse.
Una volta riempita, la fornace veniva sigillata chiudendo con un muro provvisorio la porta di accesso (usciale) alla camera di cottura: il fuoco, così, era costretto a sfogare verso l’esterno attraversandola completamente.

LA COTTURA

L’accensione della fornace prevedeva nella prima fase l’utilizzazione di legna di piccola dimensione (stipa) che bruciava facilmente ed in maniera omogenea, portando rapidamente alla temperatura voluta la camera di cottura.
Per mantenere il colore si poteva poi continua ad alimentare il fuoco con legna grossa.
L’operazione di cottura durava almeno 11-12 ore, durante le quali il fornaciaio aveva cura, facendo aggiungere o togliere legna con apposite forche o forcine, di mantenere la temperatura ottimale per la cottura dei vasi (per la maiolica circa 900°C).
In assenza di strumenti di controllo della temperatura, il fornaciaio si affidava alla propria esperienza, stabilendo il grado approssimativo della temperatura dal colore che assumeva l’interno della fornace, la quale è sempre maggiore nelle diverse gradazioni che portano dal rosso al bianco.
Ad intervalli di tempo regolari, il fornaciaio estraeva con un apposito strumento di ferro (vedetta) un vasetto (prova, procella) collocato nella fornace in posizione accessibile dall’esterno, in maniera da verificare il progressivo grado di cottura degli oggetti.
Quando si riteneva che i pezzi fossero sufficientemente cotti, la fornace veniva spenta e lasciata raffreddare gradualmente, per almeno una giornata.
Successivamente si demoliva la chiusura provvisoria dell’usciale e si estraeva il prodotto finito.

LA DECORAZIONE

Possiamo distinguere tre metodi fondamentali impiegati in passato nella decorazione della ceramica: essi sono la pittura, lo sgraffio e l’aggiunta di sostanze argillose in rilievo.
Mentre la pittura consiste nello stendere col pennello no o più colori sopra la superficie, il metodo del graffito si basa sull’asportazione del rivestimento (ingobbio o smalto), quando esso è ancora allo stato fresco, per mezzo di un attrezzo appuntito o di una forcina (stecca).
Nella ceramica ingobbita e graffita si asporta lo strato di ingobbito superficiale per far emergere il colore rossastro del biscotto sottostante: con questo sistema (graffito a punta) si disegnano i contorni delle figurazioni, che poi possono essere perfezionate dipingendole.
Si parla di graffito a fondo ribassato quando i contorni vengono incisi asportando parte più estese di ingobbito con un attrezzo a punta larga o forcina.
Il metodo dell’aggiunta di materiale in rilievo, di solito della medesima natura argillosa del biscotto, è stato largamente impiegato nell’ Europa del Nord (Germania Settentrionale ed Inghilterra) nella ceramica conosciuta con il nome di slipware.
Per la decorazione dipinta sono stati approntati anche particolari artifici che fanno assumere al colore una posizione rilevata sulla superficie dell’oggetto decorato.
In Spagna si usava definire le linee di divisione dei decori con una cordicella impregnata di sostanze grasse che, impedendo agli smalti colorati di aderire durante la cottura, li facevano ritirare. Bruciando la cordicella, venivano così lasciate scoperte zone ove il colore non avrebbe aderito a causa delle sostanze grasse; ciò permetteva alla decorazione di mantenere margini ben distinti.
Tale metodo è detto cuerda seca.